In arrivo il Bonus Amianto

In arrivo il Bonus Amianto

In attesa della pubblicazione del decreto che darà il via alle procedure per la presentazione delle domande per il Bonus Amianto.

L’agevolazione sotto forma di credito d’imposta verrà riconosciuta ai soggetti titolari di reddito di impresa che effettueranno interventi di bonifica dell’amianto su beni e strutture nel corso del 2016. In particolare sono ammissibili allo sconto fiscale gli interventi di rimozione e smaltimento, anche previo trattamento in impianti autorizzati, dell’amianto presente in coperture e manufatti di beni e strutture produttive ubicati nel territorio nazionale. Il credito d’imposta riconosciuto sarà pari al 50% delle spese ammissibili, ammontanti ad almeno 20.000 euro, e avrà un valore massimo di 200mila euro per impresa, spalmati su tre anni dal 2017 in poi.
Per il perfezionamento dell’iter procedurale amministrativo è necessario che il decreto emanato dal Ministero dell’Ambiente ottenga il formale concerto da parte del Ministero dell’Economia, cosa attesa per il mese di maggio assieme alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del documento. Dopo trenta giorni dalla predetta pubblicazione scatterà la corsa alle domande che avverrà con il meccanismo del “click day”. Il credito sarà assegnato alle aziende richiedenti fino ad esaurimento dei fondi (17.000.000,00 di euro) secondo l’ordine cronologico della presentazione delle domande.

In arrivo il Bonus Amianto
Fondi europei per lo sviluppo di tecnologie “blue”

Fondi europei per lo sviluppo di tecnologie “blue”

Fondi europei per lo sviluppo di tecnologie “blue”

La Commissione Europea ha delegato all’EASME (Agenzia Europea per le PMI) l’attuazione di parte delle azioni previste dal FEAMP – Fondo Europeo per gli affari marittimi e la pesca, con la gestione diretta di circa 8,4 bilioni di € per il periodo 2014-2020. EASME mette a disposizione contributi a fondo perduto a copertura dell’ 80% delle spese sostenute per la realizzazione di soluzioni nuove e sostenibili nell’affrontare sfide e opportunità marittime e marine nell’economia blu. Tra le priorità 2016-2017 si evidenziano:

-Biorisanamento Blu: sfruttare nuovi metaboliti e biomolecole, enzimi e geni da microrganismi che vivono in ambienti marini estremi, al fine di sviluppare e sperimentare soluzioni di biorisanamento in diverse aree/luoghi, compreso il possibile ri-utilizzo e riciclaggio di materiali pericolosi.

-Rifiuti marini: sviluppare nuove tecnologie, strumenti e prodotti per affrontare la riduzione di questi rifiuti e la gestione di specifici tipi di rifiuti, compresi i nanomateriali, la micro-plastica e i rifiuti esplosivi

-Patrimonio culturale subacqueo: sviluppare nuovi servizi, tecnologie o prodotti (ad esempio, veicoli autonomi senza pilota/sistemi robotizzati etc.) per scoprire, proteggere e valorizzare il patrimonio culturale subacqueo.

-Proliferazione di specie aliene invasive e di meduse: sviluppare nuovi prodotti, servizi e strumenti per affrontare la proliferazione nell’ambiente marino di specie aliene invasive e/o meduse, comprese la diagnosi precoce, la prevenzione, la mitigazione e misure di gestione.

 

I progetti dovranno far leva sulle competenze e la creatività dei giovani e aumentare la consapevolezza sulle sfide e le delle opportunità marine; dovranno sostenere partnership d’avanguardia tra stakeholder marittimi e rafforzare approcci multidisciplinari riunendo insieme le competenze delle imprese, del settore pubblico e degli enti di ricerca; dovranno sostenere la cooperazione rafforzata e il coordinamento tra gli stakeholder marittimi a livello di bacino (anche a livello sub-regione), capitalizzando la conoscenza degli stakeholder locali.

 

Durante la programmazione 2014-2020 saranno pubblicati ogni anno circa due bandi per il sostegno d’interventi mirati alla crescita dell’innovazione nell’economia “blue”.

Patent Box – Metodologie Di Calcolo Del Contributo Economico

Patent Box – Metodologie Di Calcolo Del Contributo Economico

Ai fini della determinazione dei metodi di calcolo del contributo economico al reddito di impresa derivante dall’utilizzo diretto dei beni immateriali agevolabili, il decreto Patent Box stabilisce che si debba far riferimento alle Linee Guida OCSE.

In particolare tali Linee Guida specificano che la selezione del metodo più appropriato per la determinazione dei prezzi di trasferimento deve essere guidata da un’analisi funzionale in modo tale da comprendere meglio le diverse interazioni tra i beni immateriali e i rischi che caratterizzano l’attività d’impresa.

La Circolare Agenzia Entrate precisa  che i metodi di transfer pricing preferibili sono il metodo del confronto del prezzo (CUP) e il metodo basato sulla ripartizione dei profitti (Profit Split Method).

Viene scoraggiato invece l’utilizzo del metodo di rivendita (Resale Price Method), il metodo del margine netto della transazione (Transactional Net Margin Method) e il metodo del costo maggiorato (Cost Plus Method) poiché ritenuti non affidabili nella valutazione diretta degli intangibili.

 

Metodo del confronto del prezzo (CUP)

Tale metodo è indicato dalla Linee Guida OCSE come il metodo preferibile per stabilire se le condizioni poste in essere tra imprese consociate siano coerenti col principio di libera concorrenza.

La corretta applicazione di tale metodo richiede elevati livelli di comparabilità nell’ambito delle transazioni controllate ovvero tra imprese associate, e nell’ambito delle transazioni indipendenti ossia quelle sul libero mercato. Nel caso vi siano differenze tra queste due tipologie di transazione e non sia possibile fare alcun tipo di aggiustamento e quindi, ad esempio, quando non sia possibile identificare transazioni comparabili indipendenti sul libero mercato, il metodo del CUP non potrà essere applicato in maniera affidabile.

Questo metodo può essere utilizzato in due differenti modalità: CUP interno ed esterno. Nel primo caso si confrontano le condizioni applicate dall’impresa in una transazioni con parti correlate e quelle applicate dalla medesima a soggetti terzi indipendenti; nel secondo caso invece si confrontano le condizioni  applicate in una transazioni con parti correlate e quelle adottate tra soggetti terzi indipendenti.

L’applicazione del metodo CUP può essere sviluppata nella fase di determinazione del tasso di royalty di mercato o nella fase di individuazione dei ricavi ai quali applicare il tasso di royalty già identificato. Il reddito agevolabile risulta dalla differenza tra il canone ottenuto dall’applicazione del tasso di royalty di mercato, i costi diretti fiscalmente rilevanti nonché la quota parte di quelli indiretti collegata al predetto bene immateriale.

Il metodo del Profit Split

Il metodo di ripartizione degli utili delle transazioni ha come obiettivo quello di eliminare gli effetti sugli utili derivanti dalle condizioni speciali convenute o imposte in una transazione controllata.

Il metodo si applica in quelle situazioni in cui due o più soggetti coinvolti in una transazione contribuiscono in misura significativa alla determinazione dell’utile che da tale operazione si origina  o in tutti quei casi in cui l’utilizzo di un metodo unilaterale non sarebbe appropriato.

Nelle ipotesi in cui il metodo CUP non risulti applicabile in maniera affidabile, tale metodo risulta il più adeguato.

Esso è utilizzato per determinare la ripartizione dei redditi non tra due o più imprese correlate, ma all’interno della stessa impresa, al fine di isolare il profitto residuale attribuibile al bene immateriale.

Una variante di questo metodo è rappresentata dal Residual Profit Split (RPSM), attraverso la quale si va ad attribuire una parte di reddito alle funzioni “routinarie” determinando, per differenza, l’utile o la perdita residua derivante dai beni intangibili.

L’applicazione di tale metodo segue le seguenti fasi:

– individuazione del reddito da ripartire;

– remunerazione delle funzioni routinarie;

– determinazione dell’extra-profitto individuato come differenza tra risultato economico della società e remunerazione delle funzioni routinarie;

– individuazione di tutti i beni intangibili ed altri eventuali fattori a cui attribuire l’extra-profitto;

– imputazione della quota parte di extra-profitto al bene intangibile isolando la quota parte da attribuire agli altri fattori. Il criterio guida deve sempre essere la determinazione della quota parte di reddito di impresa imputabile all’ipotetico “ramo d’azienda”, ragione per cui non può essere oggetto di agevolazione la quota parte di extra-profitto eventualmente riferibile ai cd. manufacturing returns e marketing returns.

Inoltre per quanto riguarda la quota parte di extra-profitto, occorre tener conto delle variazioni fiscalmente rilevanti ai fini IRPEF/IRES.

Infine nel caso in cui vi siano beni intangibili agevolabili, collegati da un vincolo di complementarietà, tali beni immateriali possono costituire un solo bene, ai fini dell’imputazione della quota parte di extra-profitto.

In caso di utilizzo di metodi diversi da quelli suggeriti dalle Linee Guida OCSE e fin cui esposti, il contribuente ha l’onere di motivare in dettaglio le ragioni per le quali i metodi del CUP e del Residual Profit Split sono stati considerati meno appropriati o non praticabili.

Il contribuente che utilizzi metodi diversi da quelli sopra descritti ha in ogni caso l’onere di dimostrare che la determinazione del reddito è coerente con il principio dell’arm’s length così come descritto nelle Linee Guida OCSE.

Eventualmente qualora l’utilizzo di un unico metodo non consenta di determinare con certezza il contributo economico, il contribuente può ricorrere all’utilizzo congiunto di più metodi qualora ciò gli consenta di raggiungere un risultato più affidabile e conforme al principio di libera concorrenza.

Lo sfruttamento economico dei marchi

Lo sfruttamento economico dei marchi

La vita dei marchi d’impresa sta progressivamente diventando meno statica di quanto si possa tradizionalmente pensare. Infatti, al di là del noto utilizzo diretto che il titolare può fare del marchio (mediante la promozione dei propri prodotti o servizi), sempre più spesso accade che i segni distintivi – tra cui, appunto, il marchio – siano oggetto di atti giuridici dispositivi a vario titolo e con differenti scopi. Tra le operazioni principali vanno certamente annoverate la cessione del marchio e il contratto di licenza di marchio.

         Quanto alla prima, il titolare di un marchio può decidere di cedere a terzi il proprio segno distintivo, anche se non registrato (marchio di fatto), a fronte di un corrispettivo in danaro, alla stregua di qualsiasi altro bene materiale, mobile o immobile. Infatti, contrariamente a quanto accadeva fino al 1992, il marchio può oggi essere trasferito e monetizzato senza alcun obbligo di contestuale trasferimento dell’azienda o di un ramo d’azienda, a condizione che dal trasferimento non derivino confusione o inganno nelle caratteristiche dei prodotti o servizi che sono essenziali nelle aspettative del pubblico. In sostanza, l’acquirente deve assicurare ai consumatori lo stesso livello qualitativo di quello garantito precedentemente alla cessione, salvo deterioramenti di modesto rilievo.

         Con il rispetto di detto limite, il marchio d’impresa può essere ceduto per la totalità dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato o utilizzato – e si avrà in questo caso la cessione totale di marchio – oppure solamente per una parte di essi – in quest’ultimo caso si avrà cessione parziale di marchio. La cessione, totale o parziale, di marchio può avvenire in maniera pura e semplice, ad esempio nell’ambito della dismissione di una linea di prodotti o servizi, oppure essere accessoria ad un’operazione unitaria di più largo respiro, come ad esempio la cessione d’azienda o di ramo d’azienda.

         Mentre con la cessione del marchio il titolare si priva in maniera definitiva della proprietà del proprio segno distintivo a favore di un altro soggetto, con il contratto di licenza di marchio il titolare (licenziante) si limita a concedere ad un terzo (licenziatario) il diritto temporaneo di utilizzare il marchio, dietro il versamento di un corrispettivo, calcolato in misura fissa oppure commisurato all’andamento degli affari.

         La licenza di marchio può essere articolata secondo le esigenze delle parti, sulla base di un ampio ventaglio di possibilità. Infatti, la licenza può essere: totale, quando riguarda tutti i prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, ovvero parziale, quando è relativa solamente ad alcuni dei prodotti o servizi (rientra in questa ipotesi anche il merchandising, che ricorre quando il titolare del marchio affidi ad un altro soggetto la produzione e le vendita di beni non affini a quelli offerti da lui stesso o da altri licenziatari); esclusiva, quando soltanto il licenziatario ha la facoltà di utilizzare il segno distintivo oggetto di accordo per la tipologia di prodotti o servizi individuata dalle parti, o  non esclusiva, quando il licenziante concede ad altri il diritto di utilizzare il marchio, riservandosi la facoltà di continuare a farne anch’egli uso, ovvero allorquando il diritto di utilizzare il marchio per i medesimi prodotti o servizi viene conferito a più soggetti (rientra in questa ipotesi il contratto di franchising); infine, la licenza può essere territorialmente limitata, con la concessione della facoltà di utilizzare il segno distintivo con riferimento ad una zona geografica delimitata.

         Anche per il contratto di licenza di marchio è fondamentale che dall’utilizzo del segno distintivo non derivi inganno per il pubblico dei consumatori. A tal fine il titolare del marchio d’impresa può far valere il diritto all’uso esclusivo del marchio contro il licenziatario che violi le disposizione del contratto di licenza relativamente alla durata, al modo di utilizzazione del marchio, alla natura dei prodotti o servizi per i quali la licenza è concessa, al territorio per cui il marchio può essere usato o alla qualità dei prodotti fabbricati o dei servizi prestati dal licenziatario.

         Alla luce delle molteplici possibilità sopra esposte, è evidente che nell’odierna realtà economica il marchio rappresenti un importante asset aziendale che, se sfruttato adeguatamente, può diventare fonte di redditività per l’impresa.

La funzione commerciale del marchio

La funzione commerciale del marchio

Per impostare un’adeguata strategia di tutela dei propri marchi occorre, preliminarmente, domandarsi quale sia il valore commerciale del marchio e quale sia la funzione del marchio nelle attività produttive e commerciali dell’impresa.

Il valore del marchio appena ideato ed il valore del marchio usato e pubblicizzato

Il marchio, appena ideato, non è che una semplice parola, un disegno, o un altro segno. Se si calcolasse il valore commerciale del marchio in questo momento, esso risulterebbe pressoché nullo. Con la pubblicità e l’uso in commercio, il marchio cessa di costituire una semplice espressione verbale o grafica e rappresenta una fondamentale realtà economica per l’impresa che lo ha adottato. Se infatti si calcolasse il valore commerciale del marchio in questo successivo momento, è verosimile, che risulti largamente superiore a quello riscontrabile al momento della sua ideazione. Questo dipende dal fatto che il marchio, in seguito al suo utilizzo ed alla pubblicità, diventa un fattore di produzione di reddito e di potenziali utili per l’impresa. Naturalmente, il valore commerciale del marchio varierà da caso a caso proprio in relazione alla diversa capacità di produzione di reddito, acquisita nel tempo. Ad esempio, si ritiene che il marchio “Coca Cola”, generalmente collocato ai primi posti per valore al mondo, abbia una tale capacità di produrre reddito, da calcolarsi nell’ordine delle migliaia di milioni di euro.

Il marchio come “segno di riconoscimento” e come “messaggio” alla clientela.

Da dove deriva questa capacità del marchio di produrre reddito? In breve, si può rispondere che essa deriva dal fatto che il marchio è uno strumento in grado di attivare e di rendere stabili i rapporti tra l’impresa e i propri clienti. In altre parole, il marchio è un “collettore di clientela”. Questa funzione è resa possibile da due caratteristiche. In primo luogo il marchio, sia esso una parola o un disegno, è un “segno di riconoscimento” dei prodotti e dei servizi di un’impresa, non diversamente da come il nome o una fotografia consente il riconoscimento di una persona. Se non esistessero i marchi, i prodotti sarebbero del tutto anonimi e i consumatori finirebbero per operare le scelte di acquisto in modo casuale. La presenza del marchio, invece, permette di distinguere un certo prodotto o servizio da tutti gli altri, e in particolare da quelli dei concorrenti, creando così un elemento di riconoscimento tra la clientela e l’impresa. In secondo luogo, non diversamente da come associamo al nome di una persona una determinata personalità, costituita da certi caratteri e qualità, così al marchio di un prodotto o di un servizio associamo una determinata identità, che è costituita anch’essa da certi caratteri e qualità. Sotto questo profilo, si può affermare che il marchio è un “messaggio” che rileva l’identità del prodotto e dei servizi di un’impresa. Si noti che la capacità di trasmettere questo particolare “messaggio” non è presente nel marchio appena ideato, ma si produce solo in seguito all’uso e alla pubblicità, per mezzo delle quali il marchio si “carica” di significati che vanno ben al di là della sua semplice espressione letterale o grafica. Ad esempio, un certo marchio potrà trasmettere un “messaggio” di qualità del prodotto e di affidabilità dell’impresa che lo ha fabbricato; un altro potrà comunicare un “messaggio” di genuinità, salubrità ed ecologicità del prodotto e delle sue lavorazioni; un altro  ancora, specie nel settore di beni consumo e di moda, potrà evocare un determinato “status symbol” o stile di vita, il mondo dell’uomo sportivo che vive a contatto con la natura, quello dell’uomo d’azione che vive nella sfida continua dei propri limiti, e così via. Il consumatore, in questo modo, viene guidato dal marchio verso un mondo nel quale si  riconosce o nel quale si vuole riconoscere. In seguito all’uso stabile e continuato nel tempo di questo genere di messaggi, sempre in associazione con un medesimo marchio, il consumatore tende a trasferire anche al marchio le stesse sensazioni evocate dal messaggio, finché il marchio diventa esso stesso un autonomo veicolo del “messaggio”. In conclusione, si può dire che il marchio è un segno che consente ad un’impresa di fare riconoscere i propri prodotti  sul mercato e di comunicare un messaggio complesso alla clientela per mezzo di un’espressione sintetica, in genere una o più parole o disegni. Naturalmente, un marchio di successo non è solo il risultato di campagne promozionali e pubblicitarie, ma di una combinazione di fattori che comprendono: prodotti  e servizi di qualità, corretto comportamento commerciale dell’impresa sul mercato e nei confronti della clientela, tutela dei propri marchi.

La tutela del marchio

Il marchio, come abbiamo visto, è uno strumento insostituibile per attivare e consolidare i rapporti tra l’impresa e la clientela. Per poter utilizzare al meglio questo strumento, occorre depositare il brevetto di marchio e per questo occorre riconoscere gli aspetti essenziali della sua disciplina normativa, i limiti e le condizioni della sua tutela.

Il marchio è un diritto esclusivo di utilizzare una certa parola, un disegno o un altro segno per contraddistinguere prodotti e/o servizi. Esso consente al proprio titolare di impedire a terzi di usare una certa parola, disegno o altro segno distintivo. In altri termini, il marchio è uno strumento che, sotto il profilo commerciale, serve a proteggere il rapporto tra l’impresa e la propria clientela da possibili indebite ingerenze della concorrenza o di terzi.