I marchi nazionali esteri

I marchi nazionali esteri

Se, oltre all’Italia, si desidera ottenere una tutela del proprio marchio anche all’estero, è possibile procedere a depositi nazionali del marchio, paese per paese, in ciascuno degli Stati esteri di proprio interesse. In alternativa è possibile ottenere una tutela del marchio in numerosi paesi esteri mediante il marchio internazionale o, nell’ambito dei paesi dell’Unione Europea, mediante il marchio dell’Unione Europea.

Per depositare un marchio nazionale nel paese estero ci si potrà avvalere di un mandatario operante nel paese straniero di pertinenza, oppure, più semplicemente, ci si potrà rivolgere ad un mandatario italiano che provvederà al deposito del marchio all’estero tramite la rete dei propri corrispondenti.

Tale modalità di registrazione del marchio consente di ottenere un titolo efficace solo in tale Stato.

La durata dei marchi all’estero è generalmente di dieci anni, ma può essere diversa in determinati paesi.

Il marchio può essere rinnovato prima della scadenza, di volta in volta, ma non necessariamente ovunque, è prevista la possibilità di rinnovare il marchio in mora nei sei mesi successivi alla data di scadenza, o entro un diverso termine.

Come avviene per il marchio italiano, anche quelli dei vari paesi esteri sono soggetti a termini di decadenza per non uso. Si noti che tali termini sono da verificare caso per caso, in quanto non necessariamente coincidono con il termine quinquennale previsto dalla norma italiana. In Cine, per esempio, il termine di decadenza per non uso è di soli tre anni dalla data di registrazione.

Inoltre, il deposito del marchio estero dovrebbe essere preceduto da una ricerca di anteriorità per verificare che non risultino depositi e registrazioni di marchi anteriori identici o simili nel paese in questione, benché tali ricerche non vengano sovente richieste dalle imprese a causa dei loro costi.

Infine, è opportuno segnalare che, nell’ambito dei paesi aderenti alla Convenzione di Parigi (alla quale aderiscono la gran parte degli Stato del mondo), nel caso del primo deposito di un marchio in un paese aderente alla  Convenzione (ad es. l’Italia) è possibile effettuare successivi depositi in altri paesi della Convenzione purché entro il termine di sei mesi dal primo deposito, rivendicando la c.d. “priorità”. La rivendicazione della priorità consente di fare retroagire gli effetti derivanti dai successivi depositi alla data del primo. In sostanza posso estendere il marchio in altri paesi anche dopo anni dal primo deposito ma se estendo entro i sei mesi dal primo deposito gli effetti del marchio decorrono dalla data di primo deposto nel proprio paese.

In seguito all’avvenuto deposito del marchio, l’ufficio marchi locale prende in esame la domanda di registrazione del marchio.

L’esame differisce sensibilmente da paese a paese, Alcuni Stati, come avviene in Italia, eseguono un esame formale della domanda, altri paesi, come  per esempio gli Stati Uniti, svolgono anche un esame sostanziale e verificano, in particolare, che il segno prescelto non sia identico o simile ad altri marchi anteriori. Quasi tutti i paesi prevedono procedure di opposizione alle quali possono ricorrere i titolari di marchi o altri diritti anteriori. In linea di principio, si può ritenere che la concessione della registrazione di un marchio sia tanto più “solida” quanto più completa è la procedura d’esame prevista dalla normativa del pase in questione.

I genere, quando la registrazione del marchio venga respinta, è possibile presentare ricorso allo stesso ufficio che ha emesso la decisione di diniego di registrazione o al superiore gerarchico e, in caso di ulteriore diniego, all’autorità giudiziaria.

Per gli elevati costi di deposito paese per paese normalmente si sceglie questa strada quasi esclusivamente o solo per i paesi che non aderiscono alla Convenzione di Parigi o nel caso di estensione in un numero limitato di paesi.

Credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo chiarimenti dell’Agenzia delle entrate in materia di operazioni straordinarie

Credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo: chiarimenti dell’Agenzia delle entrate in materia di operazioni straordinarie

Il credito d’imposta per le attività di ricerca e sviluppo è stato introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 3 del D.L. 145/2013 poi successivamente modificato, da ultimo con la Legge di Bilancio 2017. Nell’attuale formulazione l’agevolazione è riconosciuta nella misura del 50% per tutte le tipologie di spesa sostenute. In particolare sotto il profilo oggettivo trova applicazione per gli investimenti in attività di ricerca fondamentale, ricerca industriale e sviluppo sperimentale tra cui rientra la produzione e il collaudo di prodotti, processi e servizi. Tali investimenti dovranno essere effettuati a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e fino a quello in corso al 31 dicembre 2020.

Con la circolare n. 10/E del 16.05.2018, l’Agenzia delle entrate è intervenuta in relazione alla fruizione del credito d’imposta R&S nel caso di operazioni straordinarie, quali fusione, scissione, trasformazione e conferimento d’azienda, al fine di levare qualsiasi dubbio interpretativo in materia.

Nello specifico per quanto riguarda la trasformazione la problematica che può sorgere nella determinazione del credito d’imposta attiene alla formazione di periodi fiscali autonomi di durata differente da quella usuale. L’Agenzia afferma che il periodo compreso tra l’inizio del periodo d’imposta e la data in cui ha effetto la trasformazione costituisce autonomo periodo d’imposta in relazione alla quale la società trasformata ha diritto a calcolare il credito d’imposta considerando i costi imputabili in base alla regola della competenza prevista dalla disciplina agevolativa.

Per i periodi d’imposta successivi la società risultante dall’operazione di trasformazione calcola il credito d’imposta avendo come riferimento la media storica determinata in capo alla società trasformata per il suo intero valore. Nel caso in cui la trasformazione abbia avuto luogo in uno dei periodi rilevanti ai fini del calcolo della media storica, la società risultante dalla trasformazione per accedere al beneficio dovrà considerare nel calcolo anche i costi sostenuti prima della trasformazione.

Anche le operazioni di fusione e scissione presentano delle complessità sempre in relazione al calcolo dell’agevolazione, specie nel caso in cui tali operazioni siano poste in essere nel corso di uno dei periodi d’imposta rilevanti ai fini della determinazione della media di riferimento o se realizzate in uno dei periodi agevolati. Nella prima ipotesi il soggetto risultante dall’operazione è tenuto a considerare anche i costi rilevanti ai fini del calcolo del parametro storico di riferimento sostenuti dalle società incorporate o fuse. Nella seconda ipotesi occorre distinguere a seconda che le operazioni abbiano avuto effetti retroattivi o meno con la distinzione che, se l’operazione è retrodatata gli investimenti agevolabili sostenuti fino al giorno antecedente l’operazione rilevano in capo al soggetto incorporante o risultante, se l’operazione non è retrodatata la stessa determina la chiusura dell’esercizio delle incorporate o fuse e relativamente a tale autonomo periodo d’imposta la società ha diritto ad un credito d’imposta in relazione ai costi sostenuti fino alla data dell’operazione.

Infine occorre precisare che la circolare in commento dev’essere intesa come integrativa rispetto ai precedenti interventi in materia, e l’Agenzia precisa che la correzione di comportamenti difformi tenuti per errata interpretazione della norma potrà essere esercitata presentando una dichiarazione integrativa con successivo versamento del maggior credito utilizzato oppure con la sola presentazione della dichiarazione integrativa con la corretta indicazione del credito se invece l’errore ha comportato la determinazione di un minor credito.